sabato 20 aprile 2024

SISTEMA IMPRESA

15-11-2019

Ilva. «Serve acciaio italiano»

Ilva.Tazza, presidente Sistema Impresa: «A rischio 12mila posti di lavoro oltre ai 3500 lavoratori della mpmi dell’indotto. Il rilancio va affidato ad una cordata italiana con un ruolo strategico di Cdp»




«Il fallimento dell’esperienza di ArcelorMittal alla guida dello stabilimento dell’ex Ilva di Taranto è il segnale allarmante di una crisi del sistema economico e politico italiano» esordisce così il presidente di Sistema Impresa Berlino Tazza. La vicenda è in cima all’agenda nazionale: il gruppo ArcelorMittal ha annunciato la volontà di avviare la procedura di recesso dal controllo dell’ex Ilva. Un passo indietro che ha seguito, in ordine di tempo, il blocco dell’altoforno 2 ordinato dalla magistratura e il no del governo allo scudo penale ai manager del colosso franco-indiano. Un vuoto, quello che si appresta a determinare ArcelorMittal, che rischia di affamare ulteriormente le imprese italiane che hanno bisogno di 12 tonnellate all’anno di acciaio quando, nella situazione attuale, i due principali player del settore rappresentati dal Gruppo Arvedi e dall’ex Ilva producono 8 tonnellate. Il piano industriale di Taranto prevedeva di raggiungere, a regime, il traguardo di sette milioni di tonnellate. Ma la crisi del mercato insieme alle problematiche relative alla sicurezza e questione ambientale non hanno consentito di onorare le stime iniziali. Ora l’industria italiana corre il pericolo di perdere metà della quota di acciaio prodotta sul suolo nazionale. Un contesto di debolezza di cui beneficeranno i produttori turchi e cinesi che stanno invadendo il mercato europeo con una strategia di dumping agevolata dalla politica protezionistica imposta da Trump. Ma sentiamo che cosa ne pensa il presidente di Sistema Impresa Berlino Tazza.

 

La stupisce l’esito negativo della gestione ex Ilva?

«Ciò che sta accadendo era assolutamente prevedibile. La mai risolta questione ambientale, anche in sede giudiziaria, e il continuo braccio di ferro sugli esuberi tra i sindacati e la proprietà hanno generato fattori di grande tensione. Ma la decisione del ritiro di ArcelorMittal, stando anche alla fotografia di Moody’s sul mercato dell’acciaio, oltre che nel provvedimento politico di negare lo scudo penale credo non possa essere disgiunta dagli indicatori di recessione che sembrano aleggiare da tempo sul comparto siderurgico. Resta il fatto che ho sempre trovato molto fragile la narrazione iperliberista che, anche dagli esponenti della sinistra di governo, è stata utilizzata per giustificare le dismissioni di importanti pezzi dell’industria nazionale. Si è verificato con l’Ilva e rischia di verificarsi nuovamente con Alitalia. Sono convinto che se una nazione non voglia perdere la regia dello sviluppo e della politica industriale non possa, senza pagarne le conseguenze, spogliarsi dei canali produttivi strategici. E tra questi, indubbiamente, la filiera dell’acciaio rappresenta una priorità assoluta. Questa visione, ovviamente, non coincide con un’apertura alle proposte di nazionalizzazione che stanno animando il dibattito e che reputo obsolete. La risposta deve venire dal mercato e deve sfociare nel mercato. Ed è questo il quadro in cui deve essere riaffermato il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti con il compito di supportare al massimo la nascita di una cordata italiana che il Governo ha la responsabilità di stimolare con una strategia puntuale e lungimirante. Come accade peraltro nelle grandi democrazie economiche europee a partire dalla Francia e dalla Germania dove gli esecutivi nazionali lavorano fattivamente per sostenere l’industria dei rispettivi Paesi. Solo in Italia si verifica confusione che stiamo registrando su una partita così importante e strategica».

 

Ma che cosa sta succedendo a Taranto?

«La situazione paradossale è che, in riferimento al polo siderurgico di Taranto, un colosso straniero è stato preferito un anno fa ad una cordata concorrente che era guidata da imprese italiane e che poteva contare sulla presenza autorevole di Cassa Depositi e Prestiti. Un assetto che poteva garantire una maggiore solidità davanti alle turbolenze che minacciano in modo ricorrente il mercato dell’acciaio. È stato un errore, prima di tutto, dell’alta politica. Quando ci sono di mezzo fattori di grosso calibro come la capacità di provvedere al fabbisogno di acciaio del sistema produttivo nazionale e la necessità di salvaguardare 12mila posti di lavoro da sommare ai 3500 lavoratori delle micro e piccole imprese dell’indotto, alla fine, devono  intervenire valutazioni superiori rispetto al semplice calcolo dell’utile. Un gruppo a guida italiana, in presenza di una compartecipazione del Governo non rispetto alla gestione del progetto industriale ma rispetto agli obbiettivi sociali di lungo periodo, avrebbe probabilmente dato prova di una tenacia maggiore nel difendere il piano di sviluppo concordato all’inizio del percorso di acquisizione. Inoltre, una volta naufragato il piano ArcelorMittal, si dovrà rinunciare al miliardo e 800milioni pattuiti per la bonifica dell’area. Una beffa per le forze ambientaliste che hanno molto peso nel Governo e che hanno certamente contribuito a determinare la crisi».

 

Quale è il suo giudizio sulla vicenda?

«Da un lato abbiamo avuto la prova di come affidare l’asset della produzione siderurgica ad un gruppo straniero prima o poi finisca per collocare in subordine la tutela dell’interesse nazionale su una partita che, stando ai dati dello Svimez, vale l’1,4% del Pil. Sistema Impresa, a suo tempo, aveva fatto notare come si dovesse distinguere tra il mero protezionismo, al quale non bisogna mai concedere nulla, e la necessità di garantire una politica industriale all’altezza della storia produttiva del nostro Paese. A Taranto questo non è stato fatto a causa della miopia di chi, allora, aveva in mano le chiavi delle decisioni politiche e che non ha colto l’opportunità di creare le condizioni perché a prevalere fosse una cordata a maggioranza italiana. Dall’altro non possiamo non registrare l’inadeguatezza delle azioni dell’attuale esecutivo che non ha saputo stilare il corretto elenco di priorità. Se i decisori pubblici non trovano in fretta una soluzione non solo sarà mutilata l’economia locale più direttamente interessata dal funzionamento dell’impianto, ma l’intera industria italiana è destinata ad accusare un colpo durissimo».

 

Quale può essere la soluzione?

«Bisogna lavorare subito, con tempismo e capacità di visione, ad un piano alternativo tentando di coinvolgere le migliori forze produttive del Paese partendo ovviamente da chi opera già con successo nel settore siderurgico. Ora è il Governo che dovrebbe costruire le condizioni perché ciò avvenga. D’altro canto le economie locali e le parti sociali devono comprendere che va trovato al più presto un compromesso virtuoso con la proprietà per realizzare tutte le potenzialità di uno stabilimento che deve rimanere italiano e, simultaneamente, deve mostrare la capacità di potersi affacciare sul mercato globale con un prodotto concorrenziale in termini di costi finali».

 

È fiducioso in merito al risultato?

«Nessuno ha la sfera di cristallo. Credo che una svolta positiva potrà avvenire solo se tutti gli attori in gioco faranno uno sforzo per rinunciare ad alcuni aspetti delle loro rivendicazioni puntando a raggiungere una situazione di equilibrio. La meta è il raggiungimento di un bene pubblico e condiviso. Non è facile ma, in fondo, non lo è mai nessuna delle partite cruciali dalle quali dipende il futuro di una nazione. Certo tutto sarebbe più semplice se la politica avesse l’autorevolezza di negoziare con ragionevolezza. Ma oggi la politica rischia di essere inquinata da una deriva demagogica che impedisce di guardare alla realtà con franchezza e attitudine costruttiva. In questo contesto, forse, è la comunità imprenditoriale che deve assumersi la responsabilità di aprire la strada. In sette anni, a Taranto, abbiamo perso 23 miliardi di euro di Pil. L’acciaio dell’Ilva è una priorità assoluta per la tenuta dell’economia italiana e alla luce di questa considerazione, che trova conferma nel gap tra il fabbisogno del nostro sistema produttivo e la produzione reale, l’auspicio è che ritorni in pista la soluzione di una cordata che veda come protagonista un gruppo industriale italiano sulla base di una partnership con Cassa Depositi e Prestiti che mi sembra irrinunciabile».

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